© editeam - Caulonia 2015
UN PROGETTO DI: ENZO DI CHIERA - PINO CIRCOSTA - MARIA ELISA CAMPISI
Pasquale
Cavallaro
nacque
a
San
Nicola
di
Caulonia
il
21
aprile
1891
da
un’agiata
famiglia
di
massari.
Essendo
unico
figlio
maschio,
il
padre
lo
mandò
a
studiare
nel
seminario
di
Gerace
col
l’intenzione
di
farlo
prete.
Qui
ebbe
come
compagno
di
studi
Corrado
Alvaro.
In
questo
periodo
cominciò
anche
a
scrivere
poesie.
Nei
1914
conseguì
il
diploma
di
maestro
elementare
presso
la
Regia
Scuola
Normale
“Lucrezia
della
Valle”
di
Cosenza.
Partecipò
alla
prima
guerra
mondiale
e
da
Bari,
dove
era
stato
assegnato
in
un
ufficio
di
maggiorità,
scappò
e
raggiunse
volontario
il
fronte.
Nel
1923
fece
parte
di
un’associazione
segreta
nata
per
combattere
il
fascismo.
Nel
1924
insieme
a
Enzo
Misefari
e
al
fratello
Bruno
fondò
un
movimento
antifascista
clandestino,
cui
fu
imposto
il
nome
“La
Carboneria”.
Insieme
a
loro
e
agli
avvocati
Franco
Morabito
e
Ilario
Franco
fondò
nello
stesso
anno
il
giornale
“La
Libertà”,
sul
quale
pubblicò
un
coraggioso
articolo
sull’assassinio
di
Giacomo
Matteotti,
che
lo
stesso
Galeazzo
Ciano
definì
“un
velenoso
libello
della
estrema
punta
dello
stivale”.
Nel
1927,
essendo
antifascista,
gli
fu
tolto
l’insegnamento
pubblico.
Il
conferimento
della
croce
e
della
medaglia
al
valore
dei
Cavalieri
dell’Ordine
di
Vittorio
Veneto
gli
giunse
solo
qualche
giorno
dopo
la
sua
morte,
avvenuta
il
17
luglio
1973.
Il
sei
marzo
del
1945
a
Caulonia
(RC)
scoppiò
una
rivolta
popolare
in
nome
di
Pasquale
Cavallaro,
che
durò
cinque
giorni
e
proclamò
la
“Repubblica”.
Pasquale
Cavallaro
fu
perseguitato
come
antifascista,
incarcerato
e
confinato
a
Ustica
e
a
Favignana.
Il
cinque
gennaio
del
’44
fu
proclamato
sindaco
“a
furor
di
popolo”
e
fece
parte
del
Movimento
di
Concentrazione
Antifascista,
del
quale
in
breve
tempo
ne
divenne
il
capo.
Entrò
a
far
parte
per
conto
del
Partito
comunista
dell’Operazione
“Armi
ai
Partigiani”,
di
cui
parla
Umberto
Terracini
in
una
lettera
a
lui
inviata
del
3/8/1953,
in
cui,
fra
l’altro,
si
dice:
“Si
evince
chiaramente
che
hai
preso
la
decisione
di
dare
in
pasto
alla
stampa
l’operazione
“Armi
ai
Partigiani”
con
tutti
i
dettagli
positivi
e
negativi
che
ne
conseguono.
E
quindi
rendere
pubblico
il
“comportamento”
che
l’organizzazione
ha
riservato
a
molti
gerarchi
fascisti
e
qualche
agrario
in
Sicilia,
Reggio
Cal.
e
Cosenza”.
Nell’operazione
furono
coinvolti
anche
gli
Alleati
angloamericani,
col
compito
di
sbarcare
le
armi
sulla
costa
ionica
e
tirrenica
della
Calabria,
per
farle
pervenire
clandestinamente
ai
partigiani
del
Nord.
Sullo
Ionio
vennero
consegnate
a
Pasquale
Cavallaro,
sul
Tirreno
a
Eugenio
Musolino,
segretario
della
Federazione
del
PCI
di
Reggio
Cal.,
e
a
Enzo
Misefari,
capo
del
sindacato
dei
lavoratori.
Armi
che
non
andarono
tutte
ai
Partigiani
del
Nord,
perché
una
parte
fu
trattenuta
dal
popolo
per
armarsi,
in
vista
di
una
possibile
insurrezione
per
prendere
il
potere
in
Italia.
Cavallaro
su
indicazione
del
partito
lavorava
in
questa
direzione,
che
era
condivisa
da
tutto
il
partito,
compreso
Togliatti,
che
ancora
si
trovava
in
Russia.
Il
capo
del
PCI
nel
documento
“Sui
compiti
immediati
dei
comunisti
italiani”
chiedeva
chiaramente
l’abdicazione
del
re
e
le
dimissioni
di
Badoglio.
Tuttavia,
una
volta
rientrato
in
Italia
il
27
marzo
del
’44,
con
la
“Svolta
di
Salerno”
le
cose
cambiarono
radicalmente,
perché
venne
tolta
la
richiesta
dell’abdicazione
del
re
e
inserita
quella
di
una
partecipazione
al
governo
Badoglio.
Che
cosa
era
successo
perché
il
capo
del
PC
cambiasse
così
repentinamente
idea?
Tutto
cambiò,
come
risulta
dalle
ricerche
di
Elena
Aga
Rossi
e
Victor
Zaslavsky
negli
archivi
segreti
di
Mosca,
nel
libro
“Togliatti
e
Stalin”,
il
Mulino
1997,
nella
notte
del
4
marzo
1944,
subito
prima
che
partisse
per
l’Italia,
quando
Togliatti
fu
ricevuto
da
Stalin,
il
quale
respinse
decisamente
le
direttive
del
capo
del
PCI
e
suggerì, invece, che il PCI abbandonasse per il momento la richiesta dell’’abdicazione del re ed entrasse nel governo Badoglio.
In
altri
termini,
la
“Svolta
di
Salerno”
non
fu
un’iniziativa
autonoma
di
Togliatti,
ma
fu
decisa
a
Mosca
da
Stalin.
In
questa
situazione
per
i
dirigenti
comunisti
divenne
difficile
spiegare
ai
propri
militanti
la
continuità
della
“Svolta
di
Salerno”
con
il
marxismo-leninismo.
Addirittura
nella
base
del
partito
si
cominciava
a
pensare
che
Togliatti
tradisse
la
linea
del
partito
comunista
indicata
da
Stalin,
senza
rendersi
conto
che
era
proprio
lui
la
voce
di
Mosca
in
Italia.
La
rivolta
di
Caulonia
finì
nella
violenza
e
nel
sangue,
con
i
dirigenti
del
partito
che
non
vedevano
l’ora
di
togliersi
di
mezzo
Pasquale
Cavallaro,
che
era
diventato
un
testimone
scomodo,
permettendo
che
gli
venisse
gettata
addosso
l’infamante
accusa
di
mandante
nell’uccisione
di
un
prete,
che
non
aveva
niente
a
che
fare
con
la
rivolta,
il
cui
responsabile
venne
subito
arrestato.
Egli
fu
l’eccellente
vittima
della
doppiezza
di
Togliatti
e
del
partito
comunista,
che
da
una
parte
lo
incitavano
ad
andare
avanti
per
la
realizzazione
dei
piani
segreti
del
PCI
e
dall’altra
mandarono
l’esercito
per
reprimere
quel
movimento
che
essi
stessi
avevano
messo
in
moto
e
coltivato
fino
all’ultimo.
In
proposito,
ecco
cosa
dice
Togliatti
nell’intervento
di
chiusura
al
Secondo
Consiglio
Nazionale
del
PCI,
che
si
tenne
a
Roma
dal
7
al
10
aprile
1945:
“Non
vi
è
bisogno
che
io
dica
qui
che
siamo
pienamente
solidali
col
compagno
Cavallaro
per
l’azione
che
egli
ha
condotto
a
Caulonia
in
difesa
delle
libertà
elementari
di
quella
popolazione
e
per
riuscire
ad
opporre
una
barriera
alla
avanzata
delle
forze
reazionarie.
Conosco
questo
compagno
e
so
che,
con
tutti
i
difetti
che
può
avere,
è
un
buon
militante
del
nostro
partito
e
del’antifascismo”.
Mentre
il
segretario
personale
di
Togliatti,
Massimo
Caprara
in
un’intervista
sul
Corriere
della
Sera
del
17
maggio
1996,
pag.
2,
di
Maria
Latella,
così
si
esprime:
“Tra
l’aprile
del
’44
e
il
giugno
del
’46,
gli
anni
in
cui
Togliatti
fu
ministro
di
Grazia
e
Giustizia,
era
al
Sud
che
si
accendevano
i
focolai
insurrezionali.
Togliatti
doveva
reggere
il
doppio
ruolo
di
ministro
della
Repubblica
e
di
leader
del
partito
che
si
proponeva
di
raccogliere
la
protesta
contadina
scoppiata
a
Caulonia,
in
Calabria.
Prima
telegrafò
al
sindaco
del
paese,
il
compagno
Pasquale
Cavallaro,
testimoniandogli
la
sua
solidarietà,
[…..]
poi
spedì
in
Calabria
il
comunista
Molinelli,
membro
della
commissione
d’inchiesta
governativa
chiamata
ad
accertare
l’illegalità
dei
fatti
di
Caulonia”
.
“Il
Partito
di
Togliatti”,
dice
Pasquino
Crupi,
“quell’azione
la
sollecitava
e
la
rinnegò
solo
quando
esplose
nella
forma
della
rivolta
che
produceva
un
contrasto,
una lotta, una contrapposizione con le forze armate dello Stato”.
Pasquale Cavallaro
e la Repubblica di Caulonia
Tutto il Codice Penale mobilitato contro i contadini calabresi
di Maurizio Ferrara
LOCRI, luglio. – A Locri nel magazzino di un pastificio adattato ad aula di Corte d’Assise riprenderà il 14 luglio il processo ai 380 imputati per i fatti
di Caulonia. 189 sono i capi di imputazione elencati nella rubrica del processo. C’è quasi tutto il codice penale mobilitato contro i 380 contadini calabresi
imputati di aver voluto fare la rivoluzione, di aver proclamato la Repubblica di Caulonia, di aver battuto in armi le campagne e le contrade in rivolta.
Ormai questo è soltanto il processo, senz’altri aggettivi; del processo si parla a Reggio, a Catanzaro, in treno, nei caffè, negli alberghi. I giornali
provinciali hanno mobilitato i loro “inviati” e parlano continuamente del processo, intervistano gli avvocati, gli imputati, i giudici. C’è in giro per tutta la
regione sin dalla prima udienza, che segnò il primo rinvio, un’aria di attesa e di preoccupazione.
Non è mancato il solito foglio che ha annunciato che i comunisti, in caso di condanna del principale imputato Pasquale Cavallaro, avrebbero fatto
la marcia su Locri.
Quelli che hanno diffuso questa notizia sono gli stessi che ormai, da quando il processo è cominciato, arenandosi per ben due volte, non fanno
che dire che il processo è un processo di reati comuni e non politici e che gli imputati di Caulonia sono imputati comuni.
La realtà è un’altra, e la conoscono tutti, in Calabria, gli agrari per i primi, ed è: che il 14 luglio a Locri si farà il processo ai contadini calabresi, alla
loro miseria, alla loro volontà di organizzarsi per liberarsi dalla soggezione agli gnuri, padroni e padroncini oziosi come in nessun’altra terra, talvolta
miserabili anch’essi ma non per questo meno tracotanti, meno sfruttatori, meno impregnati di prepotenza e di fantasiosa e aristocratica volontà di
dominio.
In Calabria chi nasce senza possedere nulla sa che prima o poi avrà la fedina penale sporca se non filerà nei termini impostigli da quelli che li
tengono in pugno o perché hanno la terra o perché sanno “jocare la pinna”, sanno cioè manovrare la penna, mettendola al servizio degli agrari nelle
contese legali con le quali i padroni fiaccano i loro contadini, trascinandoli per anni nelle aule dei tribunali e delle preture, impoverendoli con l’esercizio a
loro carico di tutti gli artifici di una regolamentazione giudiziaria fatta apposta per far perdere la testa al contadino che non ci capisce niente e che passa la
sua esistenza tra la prepotenza del padrone e l’imbroglio del faccendiere.
Noi cittadini, “centrali” e “settentrionali”, questi contadini li conosciamo per sentito dire e li incontriamo talvolta nelle stazioni vestiti eternamente
di nero, con fagotti, carte bollate nelle mani e un’aria sperduta sul volto. Ci chiedono dove sta il Ministero. Fuori dei loro paesi i contadini calabresi hanno
una fiducia illimitata nei poteri ufficiali. Vado al Ministero, a Roma, e tutto si aggiusta, dicono. Ma nei loro paesi non sanno da chi andare, quando le cose
per essi vanno male. E le cose, per i contadini calabresi, vanno male ormai da sempre. Ma di questo in Italia si sono resi conto solo pochi scrittori di cose
meridionali, che hanno cercato e trovato nella conformazione dei rapporti sociali locali la ragione del “colore” calabrese in cui ha un gran posto la figura
ottocentesca del contadino-fuorilegge con il cappello a cono, lo schioppo sulle spalle e sul volto la vendetta per un torto patito. Se ne sono resi conto i
comunisti che conducono la lotta per la spartizione delle terre incolte e che tentano di portare sul piano dell’agitazione politica e sindacale le aspirazioni
alla giustizia radicate nella coscienza dei contadini calabresi. Ma molti altri, certi magistrati, certi carabinieri, certi funzionari, non se ne sono resi conto. E
continuano ad andare a pranzo con l’agrario Ciccio e l’agrario Carmelo, chiudono un occhio quando il padrone di 5000 piante di ulivo conferisce
all’ammasso solo due quintali d’olio (è accaduto a Crotone) e fanno invece la faccia feroce, mettono mano alla carta bollata e invocano il parere dei giornali
romani liberali, quando uno o due o cinquecento contadini calabresi fanno volare qualche ceffone sul muso di uno di questi “gnuri” oziosi e in